
Come trasformare i gruppi in team
Uno dei temi più dibattuti nelle aziende oggi è la creazione e gestione dei team: il lavoro da remoto e lo smart working (quello improvvisato) hanno creato – o forse hanno fatto emergere – delle fragilità all’interno dei team che sono diventati semplicemente dei gruppi di persone e hanno perso il carattere di squadra.
La differenza tra gruppo e squadra la spiega bene Velasco in questo breve video, immaginiamo che tu la possa intuire al volo però Velasco è sempre un bel sentire.
La cosa che ci preme sottolineare è che non è colpa della distanza se le persone non fanno squadra: distanziamento e prossimità sono fattori, elementi a cui diamo significato e valore in relazione al contesto, alle abitudini, all’organizzazione e alla cultura.
Smettiamo di pensare che siano valori assoluti e adottiamo uno sguardo più flessibile e interdipendente.
Questi due anni hanno messo in evidenza quanto la prossimità abbia, in molti casi, sopperito alla mancanza di fiducia e di leadership, ci spingiamo a dire anche alla mancanza di managerialità.
Questi due anni hanno anche portato a galla con più urgenza il tema della comunità: chi si occupa di HR e chi gestisce un’azienda oggi dovrebbe essere un costruttore di comunità, ne abbiamo parlato anche in questo articolo.
Saper trasformare le persone in team, in squadra e in comunità è una competenza sempre più cruciale e differenziante.
In questo articolo quindi esploriamo quali fattori trasformano un gruppo in una squadra, a prescindere dal modello organizzativo scelto.
Sicurezza e interdipendenza
È il primo requisito: sentirsi sicuri all’interno del gruppo.
Una sicurezza che si basa sull’interdipendenza e sulla relazione, hai detto poco.
Sento di appartenere a un team quando mi sento sicuro in quel team e quando mi sento sicuro, il senso di appartenenza cresce.
Un circolo virtuoso insomma.
Cosa incide sulla sicurezza e fa sentire le persone protette?
In primis la possibilità di espressione: poter parlare, poter esprimere il proprio parere, anche se negativo o in contrapposizione con altri pareri, poter proporre idee ecc…
Ma non solo: è sicuro quel team/squadra/comunità dove le persone possono essere sé stesse, possono portare la loro identità oltre che la loro professionalità, la loro sensibilità, le fragilità tanto quanto i punti di forza.

È sicuro quel contesto relazionale dove le differenze sono considerate un valore e convivono per generare ricchezza (non necessariamente economica).
Vogliamo esporci e fare un passo in più: è sicuro quel posto dove puoi essere chi sei a prescindere dal genere ma anche a prescindere da cosa dice l’anagrafe a riguardo del tuo genere, a prescindere dalle tue preferenze sessuali, a prescindere dai tuoi progetti familiari o da malattie pregresse.
Infine vogliamo sottolineare come, tutta la sfera comunicativa, giochi un ruolo importante su questo punto: una comunicazione aperta e trasparente, la condivisione delle informazioni, l’ascolto dei bisogni, il coinvolgimento continuo, la cultura del feedback e intelligenza emotiva come non ci fosse un domani, favoriscono la sicurezza.
Lavorare sull’interdipendenza quindi, accogliendo i conflitti e creando le condizioni affinché le persone possano gestirli rimanendo nella relazione, su questo aspetto ti rimandiamo a due professionisti molto bravi, Marco Guzzini e Giovanni Faraone e a questo articolo del loro blog che parla proprio di interdipendenza.
Fai un check e dai un voto al tuo team/squadra/comunità: da 1 a 10 com’è a sicurezza e interdipendenza?
Condividi la tua vulnerabilità
Hai capito bene, proprio la tua, di te che il team lo gestisci e lo fai crescere.
Esporre la propria vulnerabilità non è facile, lo facciamo solo se ci sentiamo sicuri (lo abbiamo ripreso anche sopra) e lo facciamo solo se qualcuno ci fa vedere che può essere fatto… chi guida un team, ovvio ma mai scontato, è chiamato a dare l’esempio.
Però aspetta, non è solo questo, c’è un aspetto più specifico e dimostrato dagli studi: la vulnerabilità condivisa connette le persone e le fa sentire una squadra.
Ogni riferimento allo sport è voluto e intenzionale, se hai giocato in squadra lo sai bene.
Su questo tema ti consigliamo di guardare il famoso e mai superato TedX di Brené Brown, la sociologa che più di altri ha saputo valorizzare la vulnerabilità e a metterne in luce gli aspetti positivi, anzi, Brené ha scoperto il collegamento diretto tra vulnerabilità e felicità. Lo trovi qui, imperdibile.
C’è anche una frase che ci è piaciuta e che ti riproponiamo (una citazione qua e là non guasta mai): “Essere vulnerabili insieme è l’unico modo per essere invulnerabili come team” (cit. Daniel Coyle).
Scatta il voto: da 1 a 10 quanto condividi la tua vulnerabilità all’interno del tuo team?
Scopo (o purpose a seconda del contesto)
Lo scopo del team è condiviso? No, non stiamo parlando degli obiettivi e delle cose da fare ma dello scopo ultimo, per questo parliamo anche di Purpose, tema a noi caro anche grazie alla collaborazione e contaminazione con Sara Mazzocchi di Storyfactory che ne parla spesso su LinkedIn, puoi iniziare a seguirla anche tu iniziando da questo post dedicato al Purpose aziendale.
Condividere e ricordare periodicamente lo scopo è fondamentale per più motivi:
- guida e orienta i comportamenti
- motiva verso una visione condivisa
- definisce le priorità
- parla in modo più forte alle giovani generazioni che guardano al senso di quello che fanno con più attenzione di quelle precedenti
Gli obiettivi diventano una conseguenza dello scopo e generano (in teoria) comportamenti congruenti.
Check: hai definito uno scopo e lo hai condiviso? ma soprattutto è un elemento vivo e presente all’interno del team? da 1 a 10 che voto ti dai su questo punto?
Costruttori di comunità
Fare insieme: questa è una condizione necessaria a creare coinvolgimento.
Anche le più belle iniziative a favore del team, se vengono calate dall’alto potrebbero non essere accolte come avremmo sperato.
Qui il punto è: fai un passo indietro, accetta la possibilità di abbassare l’asticella ma “fai con”.
“Meno ma insieme” potrebbe essere il claim.
E lo sappiamo che spesso sarebbe più facile, più veloce, più wow, erogare iniziative anziché co-costruirle, ma l’erogazione spesso non accende l’interesse e rende le persone fruitori “passivi”. Da lì a perderli è un attimo.

Co-progettare, secondo l’approccio del design thinking e co-costruire secondo il principio che insieme è meglio.
Palette alla mano: da 1 a 10 quanto co-costruisci?
Ingredienti segreti: autenticità e pazienza
Tutto questo potrebbe sembrare molto bello e relativamente facile se non fosse che invece è dannatamente difficile.
Scomporre per fattori un tema così complesso è solo un escamotage e non vuole trasferire il concetto che basti poco, perché ciascuno di questi fattori è a sua volta ampio e impervio come la parete sud della Marmolada.
Ci sono quindi due altri fattori che vanno considerati e soprattutto allenati:
- il primo è la pazienza: lavorare con le persone è meraviglioso e frustrante; è un lavoro che non porta risultati costanti nel tempo, serve tanta pazienza e la disponibilità ad accogliere le frenate tanto quanto le accelerate
- il secondo è l’autenticità che oggi, a declamare purpose e valori, le aziende fanno a gara ma non sempre sono autentiche e spesso generano più disillusioni che commitment: “meno ma vero” è un il secondo claim di questo articolo. Indispensabile per ottenere risultati profondi e nella squadra la profondità salda i legami
Autenticità e pazienza sono due virtù (altro che competenze…) da coltivare e perseguire perché non succeda che…
…parti per scalare le montagne
E poi ti fermi al primo ristorante
E non ci pensi più
(cit. Brunori Sas)
NB: Alla base di questo articolo c’è lo studio che stiamo facendo per aiutare le nostre aziende a coinvolgere le persone, tema sempre più centrale in moltissime organizzazioni. Ci ha aiutato anche seguire uno psicologo divulgatore che ti consigliamo e che forse già conosci, Luca Mazzucchelli.
Buon lavoro e buon gioco di squadra