
Quello che leggerai in questo articolo ha una sua complessità, parla di linguaggio e comunicazione aziendale e di come, talvolta, la semplificazione scivoli nella superficialità o rimbombi di vuote frasi fatte.
Superficialità è quando ci si affida a un linguaggio plastico, standardizzato, che manca di profondità.
C’è un tipo di comunicazione che non fa bene alle aziende.
Se le prossime righe ti sembrano più complesse rispetto a ciò che sei abituato a leggere nei blog, non è per una ricerca “ampollosa” ma per farti fare esperienza di una complessità sana e arricchente.
E per riportare a delle argomentazioni basate su riflessioni vere e non standardizzate composte da acronimi, sigle, frasi che non raccontano la verità.
Con questo articolo vogliamo riappropriarci degli spazi dell’argomentazione e lo facciamo con l’aiuto di una persona che stimiamo moltissimo, Pierino Malagoli infatti è il nostro Temporary Manager in ambito finance e controllo di gestione.
Seguilo, ti condurrà con maestria e garbo a comprendere il valore di una comunicazione consistente.
Covid e spazi di argomentazione
La pandemia da Covid19 ci ha costretto a cambiare le abitudini relazionali a causa del distanziamento imposto, ma ha influenzato anche la nostra predisposizione ad argomentare. Del resto, come sappiamo, un cambiamento è costituito da qualcosa che si modifica e da qualcosa che resta uguale, senza quest’ultimo termine non avremmo il riferimento a ciò che si modifica.

Gli spazi dell’argomentazione si sono espansi attraverso l’uso ancor più disinvolto dei social media, che per certi versi hanno sopperito alla mancanza di relazione in presenza, tuttavia hanno anche acuito un modo di argomentare strumentale.
Si è evidenziato ancor di più un utilizzo dei concetti come se fossero strumenti per raggiungere i nostri scopi, strumenti che supponiamo chiari ed evidenti ma che in realtà non sempre lo sono.
La semplificazione del linguaggio tecnico è sempre un bene?
Non di rado accade che usiamo i concetti, ma non li possediamo. La conseguenza più evidente è l’innalzarsi di barriere comunicative tra le persone, che quando discutono o si confrontano non lo fanno mai a proposito dei concetti ma quasi sempre a partire da essi, non accorgendosi che, alla fine, non stanno parlando della stessa cosa.
Non è un problema comunicativo, perlomeno non lo è solamente.
Un uso spoglio degli argomenti ci restituisce una visione impoverita della realtà, di noi stessi e degli altri.
Senza contare che il linguaggio che utilizziamo identifica il nostro modo di pensare e si traduce in un certo modo di fare: un’eccessiva semplificazione del linguaggio e del pensiero impoverisce la pratica umana, anche nelle organizzazioni e nelle imprese.
Aziendalese plastico e termini logori
Soprattutto nelle aziende le parole più frequentemente usate tendono a diventare logore, vuoi perché vengono scelte per significare tutto e il suo contrario, vuoi perché ridotte spesso a mere sigle e slogan.
Accade che alcuni concetti vengano ripetuti come valori imprescindibili, senza che a ciò segua alcuna responsabilizzazione rispetto al loro significato. Basti pensare a termini come “mission”, “vision”, “qualità”, “merito”, “innovazione”, e così via.
Manca, a mio parere, una riflessione cognitiva condivisa sul significato e sull’argomento che li rende validi, sulle situazioni in cui si agiscono tali termini, ma anche sulle resistenze che rendono difficile metterli in atto, resistenze che, nella maggior parte dei casi, provengono dai livelli alti dell’azienda più che dai soggetti invitati a metterli in pratica.
L’altra faccia del controllo di gestione
Ho fatto questo preambolo sul linguaggio e sulla comunicazione perché ha a che fare molto con il mio lavoro in azienda: tutto ciò che non è ben argomentato e sviscerato si traduce sempre in un impoverimento “tecnicistico” del controllo di gestione, quasi fosse una semplice tecnologia che, affiancata ad altre in azienda, aumenta di per sé la conoscenza e risolve i problemi.
Ora non c’è dubbio che l’aspetto tecnico riveste grande importanza, ma ogni azienda è a sé e il sistema che estrae i dati rilevanti deve essere assolutamente personalizzato.
La stessa lettura e interpretazione dei dati deve tenere conto della configurazione settoriale e del business, cioè del contesto. Ma, oltre al come, c’è il perché. E il perché attiene all’argomentazione che sostiene le proprie tesi.
Essa si avvale del dialogo, cioè della forma di comunicazione che presuppone la possibilità di cambiare idea e di farla cambiare all’interlocutore, contaminare con i propri argomenti e farsi contaminare dagli altrui argomenti.

Bisogna, quindi, partire chiedendosi il perché dell’azione aziendale, che non può essere limitata al semplicistico “vendere di più” e/o “guadagnare di più”, ma deve far emergere le argomentazioni più vere e profonde sul passato e sul futuro dell’impresa.
Le decisioni sono sempre più complesse perché vi è un tumultuoso sviluppo tecnologico che rende rapidamente obsolete le competenze individuali. Perché i bisogni e i mercati spingono alla nascita di nuovi modelli organizzativi e aumentano la concorrenza. Perché si moltiplicano i punti di vista e gli interessi che coinvolgono i diversi stakeholders che gravitano intorno all’azienda (dipendenti, cittadini, clienti, amministratori, istituzioni).
Se non capiamo in profondità cosa vogliamo fare e dove vogliamo andare, con solidi argomenti, rischiamo di essere come il “chiacchiericcio” dei social acuito dalla pandemia, per il quale ognuno si sente in dovere di dire la sua senza conoscere i dati e senza avere una prospettiva.
Ecco, diciamo che il controllo di gestione funge da bussola, ma solo una volta che si sa dove si vuole andare.
Per questo la figura del controller professionista deve non solo saper costruire sistemi, ma deve saper dialogare con l’impresa per individuare, consigliare, indicare.
Cioè argomentare e far argomentare.
Pierino Malagoli