
Non si contano i contenuti nel web, articoli, post, video, podcast, interviste, che si spiegano a chi cerca lavoro come relazionarsi con i recruiter, come attirare la loro attenzione, come bucare lo schermo con un CV o con una mail d’effetto, come gestire con strategia ogni fase del processo di selezione per avere più possibilità di conquistare un certo lavoro.
Scarseggiano invece i contenuti che parlano ai recruiter per dire loro cosa funziona e cosa non funziona nella relazione con i candidati.
Lo facciamo noi in questo articolo, che parla a chi fa il nostro mestiere e a tutte quelle persone nelle aziende che si apprestano a occuparsi, anche in modo saltuario, di ricerca e selezione.
Perché se la direzione in cui si sta muovendo il mercato del lavoro è fatta di reciprocità, dialogo e maggior equilibrio, è giusto contro-bilanciare la narrazione del recruiting spostando il punto di vista e imparando ad ascoltare per davvero le esigenze di chi non si limita a cercare lavoro, ma si impegna ad offrire professionalità (non a chiunque e non a qualsiasi costo).
In questo articolo troverai una lista tra comportamenti e procedure che possono compromettere l’esito di una selezione.
L’assenza di risposta
Iniziamo da un grande classico: la mancanza di risposta, il riscontro finale a chi non è stato assunto.
Questo silenzio è ancora il comportamento più squalificante e più denunciato su LinkedIn.
Se come recruiter contatti una persona, anche solo per chiederle un CV, non sparire nel nulla quando ti accorgi che non è la “persona giusta”.
Lo sappiamo: rispondere a chi non procede nel processo di selezione può sembrare una perdita di tempo, ma quella risposta significa tantissimo per chi la riceve e ti qualifica come interlocutore e/o azienda affidabile.
Personal ed employer branding passano con forza da questi comportamenti di cura e attenzione.
La mancanza di feedback a seguito di risposta negativa
Questo è un upgrade del punto precedente: se la risposta è dovuta (non è un favore che fai ai candidati, sia chiaro), il feedback è il corrispettivo dell’effetto wow di cui si parla nel marketing.
Il feedback consiste nello spiegare a chi è stato attivamente coinvolto nel processo di selezione, i motivi della sua esclusione (o della scelta di un’altra persona).
Significa donare indicazioni di miglioramento a chi ne ha bisogno, condividere eventuali dubbi o riflessioni dell’azienda, costruire un rapporto paritario con le persone e non solo usarle per chiudere una selezione.
È un gesto che racconta la tua competenza e ti rende credibile perché fa emergere la tua capacità di analizzare, valutare e appunto, selezionare.
Le inserzioni vaghe, incomplete o fuffose
Ne abbiamo già parlato in questo articolo: gli annunci di lavoro sono uno dei primi touchpoint per i candidati e hanno il potere di rivelare molto dell’azienda a chi le legge. Al di là della forma più o meno originale che saprai dare loro, quello che qualsiasi annuncio di lavoro deve possedere è:
- chiarezza e precisione nelle informazioni (sul ruolo e sui requisiti richiesti),
- coerenza e congruenza (se cerchi una persona jr non puoi chiedere 3 anni di esperienza specifica nel ruolo),
- autenticità e rilevanza: “leader di settore”, “storica e rinomata azienda”, “contesto giovane e dinamico”, “azienda modernamente organizzata”, “retribuzione commisurata all’esperienza”.. sono tutti cliché a cui nessuno dà più valore perché non dicono niente di rilevante. Se l’inserzione è anonima specifica quantomeno il settore, i mercati, le dimensioni; esplicita l’età media delle persone; anticipa qualcosa del modello organizzativo, racconta i valori ed esponi il range retributivo di riferimento se possibile (altrimenti taci e basta)… queste sono le informazioni che contano e che interessano a chi legge
Dover inviare un CV aggiornato prima di sapere cosa si tratta
Ecco un altro comportamento che un buon recruiter dovrebbe evitare quando fa ricerca di candidati passivi, ovvero quando scartabella LinkedIn alla ricerca di chi non ha risposto all’annuncio eppure potrebbe essere interessante per la posizione aperta: chiedere un CV prima di dare quelle informazioni che consentono alla persona contattata di valutare se l’opportunità è di suo interesse.
Chi non cerca lavoro attivamente è probabile che non abbia un CV aggiornato (sarebbe bello il contrario ma sappiamo benissimo che non è così) e spesso dover aggiornare il CV è qualcosa di piacevole come la visita dal dentista… di conseguenza, prima di chiedere un CV a chi si sta facendo i fatti suoi, spendi un po’ di tempo a conversare con quella persona (LinkedIn è lì apposta per il networking) raccogliendo e soprattutto condividendo le informazioni utili a capire insieme se ci sono le condizioni a procedere, solo a quel punto la persona potrà investire volentieri una serata a sistemare il curriculum. Il rispetto per il tempo altrui è una delle forme più apprezzate di attenzione personale.

Di dover impiegare 45 minuti per candidarsi
Questo aspetto potrebbe non riguardare te in prima persona che non hai voce negli strumenti o nel gestionale HR, ma è un fattore che incide molto nella candidate experience e quindi va considerato: com’è il processo di candidatura?
È sufficiente inviare un CV o servono 45 minuti di compilazione per poi allegare, solo alla fine, un Curriculum che contiene esattamente tutto quello che è stato inserito manualmente?
Candidarsi a una posizione dovrebbe essere semplice, veloce, indolore e, perché no, anche piacevole (ad esempio se ricevo una risposta mail automatica ma personalizzata e un con un briciolo di personalità che mette i semi di una relazione di fiducia, trasparenza e rispetto).
Ci avevi mai pensato?
La piacevolezza e la bellezza non sono degli orpelli.
Le discriminazioni, palesi o implicite
Non sarebbe nemmeno il caso di commentare questo punto visto che si tratta di attività illegali. Ciononostante è importante sottolineare che, a partire dall’annuncio di lavoro, qualsiasi discriminazione è assolutamente vietata. A colloquio non puoi chiedere alla persona che sta intervistando i suoi progetti familiari, le sue preferenze religiose, sessuali o politiche, non puoi discriminare in funzione del genere, dell’età o della nazionalità. Le disabilità non possono diventare elemento di discriminazione.
Poteva essere un punto da omettere (in fondo è la legge a stabilirlo) ma abbiamo deciso di inserirlo perché queste discriminazioni sono attuali e addirittura sbandierate al vento e c’è chi le giustifica e si accontenta di dire “il mondo va così da sempre”. No, non va e non deve andare così.
L’innamoramento per partito preso
“Noi assumiamo solo persone fortemente motivate a lavorare per noi, insomma, devono essere innamorate della nostra azienda.”
Dov’è il problema di questa affermazione che potrebbe apparire anche romantica?
Il primo problema è che le aziende vorrebbero essere amate a prescindere, senza prendersi il disturbo di corteggiare.
Il secondo, terribile, problema, è che misurano questo amore con la disponibilità del lavoratore a rinunciare a parte dello stipendio, o della stabilità, o dei benefit.
Questa è mancanza di rispetto e allo stesso tempo scollamento dalla realtà: è una pretesa assurda.
Prima di domandare chiediti sempre cosa stai dando: perché una persona dovrebbe voler venire a lavorare per la tua azienda o per il tuo cliente?

La mancanza di informazioni valoriali
Nell’epoca del purpose (che è cosa diversa di vision e mission e ne parla benissimo Sara Mazzocchi su LinkedIn) i valori aziendali non possono più essere slogan ammuffiti che compaiono in una carta dei valori nascosta in qualche anfratto buio del sito e dell’intranet che nessuno usa.
Già in fase di attrazione ed employer branding i valori devono essere raccontati (non declamati) e condivisi. Chi si occupa di recruiting in azienda ha la responsabilità e l’onore di trasferire questi valori alle persone che contatta e che intervista. Allo stesso modo, un recruiter esterno è chiamato a conoscere i valori dell’azienda cliente e a lavorare rispettando i propri e facendoli entrare nella relazione professionale che va ad instaurare.
Non c’è niente che allontanerà di più un candidato di talento che sentir parlare di rispetto, persone al centro, sostenibilità, fiducia ecc… e poi sperimentare nei gesti quotidiani di un processo di selezione comportamenti completamente diversi.
E anche il solo non parlare di valori aziendali è un indizio che genera sospetto in chi sta valutando di collaborare con un’azienda: il sospetto che i valori e il purpose non siano centrali e che il prodotto, la produttività, l’efficienza, la presenza, l’abnegazione ecc… lo siano molto di più.
Una presenza assente su LinkedIn o nei social
Si sa, noi recruiter passiamo un sacco di tempo su LinkedIn a cercare profili in linea con le nostre ricerche, pensare anche di usarlo per scrivere e fare networking talvolta è scoraggiante.
Eppure se vogliamo fare la differenza e cambiare la narrazione che ci dipinge come dei mercenari, i social dobbiamo usarli per la loro funzione più alta: interagire, conversare, condividere valore.
Lo stesso deve fare l’azienda che, sempre di più, è nelle condizioni di interagire con i contenuti delle persone.
Esserci per non rispondere, per non interagire, per non conversare equivale a lanciare un messaggio chiaro: “sono qui solo per i miei interessi (vendere, trovare profili, promuovermi, individuare clienti, farmi pubblicità, tenere d’occhio i competitor, esserci perché non si può non esserci) e non ho ancora capito che i social servono ad altro.”
E i candidati svegli, credici, se ne accorgono.
L’approccio paternalistico
Torniamo al colloquio: il paternalismo tanto di moda nelle aziende familiari ha stancato un po’ tutti e anche se la tua azienda non è una multinazionale è arrivato il momento di andare oltre. Le aziende possono coltivare un clima informale, possono (anzi devono) curare il benessere delle persone, sono chiamate a occuparsi delle persone e non solo della loro produttività ma questo non le rende una famiglia.
Il nostro consiglio è di ridurre o eliminare ogni comunicazione paternalistica nei colloqui o nelle interazioni con candidati: non sono bambini, sono professionisti, adulti anche se appena usciti dall’università e sono capaci di agire con senso critico.
Dire a un candidato che l’azienda è una famiglia, sottolineare quanto sarà fortunato a lavorare per noi, evidenziare quanto l’azienda sta facendo per lui e per la sua situazione… sono alcuni esempi che denotano un approccio paternalistico da cui le persone di valore si stanno allontanando.
Scarsa attenzione e cura nella negoziazione economica
In Veneto funziona una frase che recita “per i soldi poi ci mettiamo d’accordo”, come a dire che quello retributivo non è un elemento importante, perché importante è che ci sia tutto il resto, che ci piacciamo, che il ruolo sia allineato, che le regole siano condivise ecc…
È vero che i soldi non sono tutto, ma affrontare con leggerezza o con approssimazione questo passaggio equivale a dire al candidato “non venire a lavorare qui”.
Trasparenza, chiarezza, competenza tecnica: in questa fase servono tutte e tre le qualità.
La retribuzione, inclusiva di benefit, parte variabile, welfare ecc… è la base su cui tutto il resto può reggersi e innalzarsi, diversamente mancheranno gli elementi indispensabili.
E come recruiter è importante mostrarsi preparati e disponibili ad affrontare il tema in qualsiasi momento emerga.
Ogni azienda ha il suo iter e non ci sono regole: qualcuno affronta l’aspetto economico subito, qualcuno più tardi.
Quello che non deve succedere è, a domanda del candidato, di non sapere cosa rispondere, divagare, sminuire la richiesta e lasciar trasparire che su quell’aspetto c’è confusione.

Iter di selezione lunghi, lenti e laboriosi
Si sa che assumere una persona non è cosa che si fa in pochi giorni, alcune selezioni sono veloci, altre eterne.
Ma qui stiamo parlando dell’iter di selezione, non dei problemi tecnici che possono insorgere e allungare i tempi.
Di quanti passaggi si compone l’iter di selezione della tua azienda?
Quanti incontri prevede, a che distanza l’uno dall’altro?
Quanto tempo dovrà investire la persona coinvolta?
Le comunicazioni sono puntuali? o diradate e vaghe?
Usi la tecnologia (es le video call) per ridurre gli spostamenti e contrarre i tempi?
Attivi una serie di attenzioni che rendono più fluido e più ritmato il processo?
Ricordati che non stai solo offrendo un’opportunità di lavoro a chi coinvolgi, stai anche chiedendo loro del tempo (che va sottratto al lavoro o alla vita provata), la loro attenzione, talvolta le loro competenze… abbine cura con l’accortezza di progettare una selezione ben ritmata e trasparente.
E veniamo quindi all’ultimo punto:
La mancanza di trasparenza
Noi recruiter siamo anche un po’ commerciali delle aziende per le quali lavoriamo: quando abbiamo di fronte un candidato quello che facciamo è proporre e cercare di vendergli una posizione, un ruolo, un cambiamento, un percorso di crescita e anche l’azienda stessa.
Questo però non deve mai far venire meno la trasparenza e il senso critico.
Trasparenza sul processo di selezione ma anche trasparenza su ciò che stiamo offrendo: dipingere un’azienda con i colori che non le appartengono è pericolosissimo.
Basteranno pochi giorni al neo-assunto per capire di essere stato raggirato e per andarsene (e succede con sempre maggiore frequenza).
La trasparenza deve accompagnare ogni fase del processo di selezione, deve essere un punto fermo per chi si occupa di recruiting.
È giusto non svelare dati sensibili ma esporre le criticità, fornire alla persona tutti gli elementi per valutare l’azienda, raccontare l’organizzazione per quella è oltre che per ciò che vuole diventare è fondamentale.
Questi sono i nostri suggerimenti per imparare a relazionarsi con i candidati in modo più efficace e per accrescere la nostra credibilità di recruiter, una professione che amiamo e che crediamo faccia la differenza nei processi di assunzione e nella possibilità di crescita delle aziende.
Buon lavoro 🙂